Scuola Nazionale di Scialpinismo e Snowboard Alpinismo

11 – Metafore scialpinistiche dagli anni ’50 ad oggi

di Lorenzo Bersezio

Novembre 1973. Sotto gli sci sto calzando le mie prime pelli di foca sintetiche, che sostituiscono quelle di foca vera, in voga in precedenza e che avevano pelo più lungo, morbido e vellutato, bello da accarezzare. Anche queste sono bianche, ma solo per non disturbare le abitudini cromatiche.
Adesive? Per nulla! Sono costituite da una banda di tela con un’asola di cuoio in punta, un nastro con anello posteriore e due nastrini laterali che le legano agli sci. C’è però tutta l’emozione di non aver sacrificato un animale per il nostro gioco.
Parto! La mia mèta è il Col di Melle, nel cuneese, alla quota di 1800 metri circa.
Mi avvio da una curva della strada, a circa 750 metri di altezza. Le gite a quote così basse oggi non esistono più, salvo in rari anni eccezionali. A quei tempi, invece, il riscaldamento globale non era percepito e lo scialpinismo iniziava dalle coltivazioni e includeva una parola, di tipo culturale, oggi desueta: avvento.
Indicava la lenta preparazione del corpo, del manto e dei sogni ai fasti rubicondi della primavera brillante. Qualcosa tra l’attesa laica e la speranza religiosa. La neve soffice, abbondante e accogliente ne regalava la sensazione agli occhi e al cuore.

Oggi, anno 2021, il manto è quasi sempre striminzito, gelato, duro come il ghiaccio fin dal primo giorno. Gli sci, sciancrati, devono incidere e segare, non galleggiare, mi disse un caro amico.
La stagione sciistica non inizia più a novembre, ma a fine gennaio, se va bene.
La quota d’avvio non è quella delle coltivazioni, ma mille metri più in alto. Ogni percorso è subito difficile e senza pietà.
Ma noi torniamo al novembre del 1973, proprio mentre inizio una salita tranquilla. Ogni asperità appare rotonda e smussata. Ogni tetto è una capanna.
La montagna mi accoglie con linee morbide e alberi incappucciati, che sembrano messi lì per sorprendere. Non solo me, ma tutti. Viene voglia di amarla, quella natura gentile.

Cammino e le pelli di foca, nuove, iniziano la loro ”vita”. S’inumidiscono e ben presto s’impregnano d’acqua: perbacco! son fatte di tela simile a stoffa.
Compare lo zoccolo. Da cima a fondo dello sci. Enorme. Ma quello sotto la pelle, rivolto vero il terreno, è nulla in confronto a quello tra la pelle e la soletta dello sci. Certo! La pelle idrorepellente non era stata ancora inventata e questa s’era intrisa d’acqua e si era slabbrata.
Si badi bene: lo zoccolo, chiamiamolo “interno”, differiva da quello “esterno”: era rugoso, casuale, grumoso, perché la pelle di foca, ammosciata, vi s’ingrumava formando nodi di neve e di pelo, che favorivano le storte alle caviglie e lo sdrucciolamento.

Ho capito. Devo fermarmi. Stacco le pelli. Ripulisco, sbatto, scrosto pezzi gelati, accorcio il nastro alla coda dello sci per ridurre lo slabbramento e noto, mannaggia!, che la lamina dello sci sta tagliando i due nastrini di stoffa laterali che evitano alla pelle di spostarsi mezzo metro a destra o a sinistra della
soletta.
Speriamo che non si rompa: questa sera chiederò a mia mamma (nota esperta di queste faccende tecniche!) di fare un rattoppo preventivo, con tanto di ago e filo. Alla fine delle operazioni scarico un tre chili di neve per ogni sci e riparto.
In alto, ossia a 1500 metri di quota, il manto è diventato duro, ventato. C’è un traverso quasi orizzontale da percorrere. Inizio e subito, al primo passo, la soletta scivola lateralmente sul piano di scorrimento tra la pelle di foca e la soletta stessa e tutto derapa verso valle.
La perfida slittata è stata avviata dalla stessa attrezzatura che uso, però…
Nessun problema! Mi hanno insegnato la soluzione. E qui entra in gioco lo scarpone e l’attacco dello sci.

Utilizzo, per chi non lo sapesse, una calzatura totalmente in cuoio morbido, ben ingrassata, allacciata con stringa e con un solo gancio metallico all’altezza del malleolo. Marca Gaerne. Era la delizia dell’epoca. Soave come un ciabatta, sia in salita che in discesa. Favoriva, anzi stimolava, qualunque rotazione delle
caviglie in qualsiasi direzione.
Quello scarpone era fissato allo sci tramite attacco Zermatt o similare, l’ultimo grido della modernità (s’inclinava fin quasi a 90 gradi) ideato con un mollettone anteriore collegato a un tirante che passava intorno al tacco della calzatura. Ed ecco la soluzione alle scivolate laterali: “spingi il tacco dello scarpone fuori dello sci – mi aveva insegnato un istruttore – il tirante dell’attacco è così flaccido che ti da gioco per almeno cinque centimetri. Così incidi la neve con la suola e non ruzzoli”. Difetti dell’attrezzatura trasformati in pregi e in “geniali” stratagemmi.

Con simili accortezze, considerate oggi “fuori dalla grazia di dio”, sto per giungere al colle. Tira aria fredda. E’ un vero autunno alpino. Vesto la giacca in popelin riesumata dalla giovinezza della mamma. Di colore azzurro; col cappuccio in testa sembro la Vergine del Pilar. Goretex? Ancora da nascere.
Tuttavia erano usciti i primi duvet, una vera novità alquanto costosa e ormai quasi dimenticata.
Io, come molti, non avevo i soldi per l’acquisto e allora la mamma, che mai aveva visto uno sciatore alpinista, mi aveva cucito un duvet casalingo, con piume varie che aveva comprato in qualche mercato rionale. Non teneva veramente caldo, ma era così pesante che sudavo moltissimo nel trasporto.

Non si pensi, tuttavia, che tutto ciò fosse frutto della povertà o dell’improvvisazione. Al contrario, a quell’epoca lo sciatore alpinista menava vanto del proprio saper fare tutto da sé, in ogni occasione. Cavarsi d’impiccio con le proprie mani era il motto; non certo rivolgersi ai soccorsi di altri, farsi
accudire o peggio abbandonarsi alle compagnie assicuratrici.
Nello zaino, per esempio, si trasportava una vera e propria ferramenta ben fornita: ribattini, viti, cacciaviti piatti e a stella, forbici, pinze di varie forme e dimensioni, tiranti, martelletto, una ganascia per l’attacco e anche una punta da sci di ricambio, perché, fatti in legno, avrebbero potuto rompersi in qualsiasi impatto e su qualunque dosso.
Nel frattempo tocco la mèta, dove quell’attrezzatura mostra tutto il suo valore.
Bisogna ricordare che in quel periodo gli sci in legno erano apparsi laminati. Io ne avevo scelto un paio dal nome sensuale e dinamico: Sprint.
Le lamine avevano uno spessore di circa un millimetro e una larghezza di circa 5 millimetri e non erano uniche da cima a fondo. Erano partizionate in sezioni, lunghe ciascuna dieci centimetri. Ogni pezzetto era incastrato nel pezzo precedente e in quello successivo ed era fissato alla soletta dello sci tramite
una vite in testa e una vite in coda per ogni pezzetto.

In sintesi, mi aiuti l’aritmetica sempre necessaria nello scialpinismo, i miei sci Sprint, lunghi 1,80 metri, avevano esattamente 18 spezzoni di lama per lato: in totale 72 pezzi con due viti ciascuna: 144 viti.
Tutte da riavvitare, per lo meno una volta per gita, in vetta. Sventura sarebbe stata perdere una vite. Peggio vedere uno o più pezzi di lama sporgere a lato dello sci penetrando nella neve. Disgrazia massima sarebbe stata perdere qualche pezzo strada facendo. In vetta, dunque, mangiavo, cantavo e
avvitavo. E non si pensi, per carità, che fossi l’unico!
Con quel tipo di attrezzatura, che sorridendo definirei “paradossale”, salii non solo il Col di Melle, ma altre vette di maggior prestigio, tra cui ricordo alcuni 4000 come la cima del Monte Rosa e del Gran Paradiso, nonché tutte le gite del corso SUCAI di quegli anni.
Rileggo ora l’elenco di quelle gite nel nostro annuario uscito nel 2001 per commemorare i 50 anni della scuola e trovo gite che sono dello stesso calibro, difficoltà e lunghezza rispetto a quelle che si fanno adesso, anno 2021. Identiche.

All’epoca tuttavia l’attrezzatura era ben diversa dall’attuale. Sorge quindi spontanea una domanda: a cosa è servito il miglioramento nelle attrezzature dello scialpinismo?
L’argomento si fa ghiotto. Io mi limito ad accennare (senza condividere) l’idea espressa dallo storico francese Antoine De Baecque, che nel suo libro Une Histoire de la marche (dedicato all’escursionismo) osserva che i nuovi potenti strumenti tecnici, hanno alleggerito le fatiche, incrementato una sorta di
consumismo pigro della montagna e moltiplicato gli utenti, senza tuttavia accorciare i temi di percorrenza e senza rendere a portata di piede i percorsi difficili.

Lo spazio concesso al mio racconto metaforico finisce qui. Desidero però citare questo tema. Negli anni ’50 del Novecento si scatenò la corsa alla conquista degli 8000, che rese l’alpinismo una prosecuzione della competizione bellica appena conclusa e un elogio alla forza nazionale ritrovata (come sostiene il
noto giornalista di montagna Roberto Mantovani).
Lo scialpinismo percorse vie del tutto opposte, basate sulla solidarietà internazionale e sulla cooperazione. Esempio emblematico ne fu il Rally CAI-CAF non competitivo seppur atletico, inventato dal francese Raymond Latarjet nel 1950.
In quel contesto prese vita anche la Scuola SUCAI.

Verso la vetta dell’Albaron di Savoia, m 3638, dal rif. Des Evettes. Corso Sucai per aiuto istruttori (1986). Nell’immagine il futuro ISA Alberto Morino in cordata tra i seracchi che precedono la cima, con attrezzatura dell’epoca. Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Verso la vetta dell’Albaron di Savoia, m 3638, dal rif. Des Evettes. Corso Sucai per aiuto istruttori (1986). Gruppo condotto dal futuro Presidente della Scuola, INSA Mario Schipani. Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Corso Sucai verso la vetta della Pigne d’Arolla, m 3796 (1 maggio 1990). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Gruppi sgranati del corso Sucai verso la vetta della Pigne d’Arolla, m 3796 (1 maggio 1990). Panorama dai pressi della cima. Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Corso Sucai verso il San Matteo, m 3678 (27 aprile 1985). Il gruppo guidato dall’ISA Paolo Ferraris alle prese con la seraccata finale del ghiacciaio dei Forni, con attrezzatura dell’epoca. (foto Lorenzo Bersezio)
Gruppo del corso Sucai in discesa dal Monte Bianco ( 27 aprile 1980). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Corso Sucai verso il San Matteo, m 3678 (27 aprile 1985). Il gruppo guidato dall’ISA Paolo Ferraris. Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Distintivati nel corso Sucai in salita verso l’Auto Vallonasso, m 2885 in alta valle Maira (27 marzo 1988). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Gruppi del corso Sucai sull’Allalingletscher, durante la salita allo Stralhorn, m 4190 (1 maggio 1972). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Gruppo del corso Sucai sull’Allalingletscher, durante la salita allo Stralhorn, m 4190, in Vallese (1 maggio 1972). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Gruppi sparsi del corso Sucai sull’Allalingletscher, durante la salita allo Stralhorn, m 4190 in Vallese (1 maggio 1972). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Il gruppo guidato dall’ISA Luisella Guidoni, una delle prime donne istruttrici della scuola, scende il ripido canale del passo Laris, dopo l’ascensione al Becco Alto d’Ischiator, m 2996, in valle Stura di Demonte (13 maggio 1979). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Gruppi del corso Sucai in salita e in discesa sull’ultimo, ripidissimo pendio che sbocca alla vetta del Becco Alto d’Ischiator, m 2996, con attrezzatura dell’epoca. (13 maggio 1979). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
L’INSA Guido Vindrola scende il canale mozzafiato del passo Laris, durante il ritorno del corso Sucai dal Becco Alto d’Ischiator, m 2996, in valle Stura di Demonte (13 maggio 1979) . Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Il gruppo di apertura del corso Sucai giunge in vetta al monte Meidassa, m 3105, al cospetto del Monviso (10 aprile 1988). Foto Arch. Lorenzo Bersezio
Gruppo del corso Sucai verso la vetta del Gran Paradiso, m 4061 (15 maggio 1977). Foto Arch. Lorenzo Bersezio